“Carona a spasso nel tempo” è il nome di un sentiero recentemente ripristinato per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni di un tempo.
Dunque, percorrere questo sentiero è come fare un viaggio in un tempo in cui la vita era difficile, dura e scomoda, ma sicuramente rispettosa e riconoscente verso il proprio territorio, aspetto che oggi è sottovalutato o addirittura dimenticato.
Si tratta di un sentiero didattico della durata di circa un’ora adatto anche ai bambini, affinché tornino ad apprezzare e valorizzare le risorse che la montagna offre.
“Le patate di Carona”: era questa la frase tipica con cui molti forestieri commentavano il nome di Carona. Ed effettivamente riconosciute unanimemente per la loro qualità, le patate hanno avuto un ruolo fondamentale nell’economia di tante famiglie del nostro paese.
Persino la prima Guida gastronomica d’Italia del Touring Club Italiano esaltava le patate bergamasche e in particolare definiva “farinose e serbevoli le patate bianche di Carona”.
Le patate, oltre ad essere prezioso bene di sostentamento per le famiglie di Carona, erano anche oggetto di commercio e di baratto con le merci della pianura bergamasca. Dire Carona, specie un tempo, era dire “patate”.
La speciale alchimia tra terreno, sole, acqua, aria, lavorazione e sementi ha generato patate di grande qualità.
Pagliari è un piccolo borgo posto a 1350 metri di quota, le cui origini risalgono al 1600. Questa contrada era il centro di un’area culturale e commerciale fitta di sentieri e tracciati di comunicazione fra la Valle Brembana e la Valtellina. Sentieri percorsi abitualmente dai contrabbandieri diretti in Valtellina e nei Grigioni svizzeri, per praticare i loro traffici di piccolo cabotaggio, senza dover passare dalla dogana veneta di Cà San Marco. Lungo queste vie secondarie di traffici notturni, Pagliari è stata per secoli la sentinella dei viandanti, l’ultimo bivacco prima dello strappo finale sui tracciati transorobici.
Negli anni Trenta e Quaranta, Pagliari era una frazione viva, dinamica, con tutte le case aperte e i suoi abitanti in pianta stabile, dediti all’agricoltura e all’allevamento. Tutto funzionava, secondo i ritmi scanditi dal tempo: l’osteria, la chiesetta di San Gottardo, la fontana.
Le stalle erano piene di animali, sulle piazzette era un via vai di gatti e galline, le case avevano i fiori alla finestra e le strade erano tenute pulite dalle erbacce.
Giù in fondo, nella valletta il fiume Brembo gorgogliava vivace e le donne vi si recavano per lavare i panni. Il paese contava oltre 100 anime e stagionalmente i maschi emigravano in Svizzera o in Francia. Poi, dopo la guerra, le cose sono andate progressivamente cambiando ed il piccolo villaggio alpino ha iniziato a spopolarsi.
L’antica contrada di pietra tutta costruita con il l’ardesia delle montagne vicine, ha pian piano chiuso i battenti, isolandosi dal centro di Carona, diradando i rapporti commerciali intervallivi ma soprattutto degradandosi nelle sue costruzioni, che venivano pian piano abbandonate. Soltanto gli anziani tenevano duro, rimanendo attaccati alle loro origini.
Agli inizi degli anni Sessanta a Pagliari vivevano circa 60 abitanti. Molte famiglie, soprattutto le più giovani, scesero a valle o si trasferirono in città verso le grandi fabbriche di Bergamo e Milano. I campi vennero abbandonati e il bestiame venduto. Le belle case con i tetti in ardesia e le piccole finestrelle con l’architrave in legno, rimasero sole, in silenzio, a veder passare le stagioni fuori dalla porta. Divennero tristi, si piegarono su sé stesse e molte crollarono. Per Pagliari furono gli anni della decadenza, del degrado strutturale e dell’abbandono.
I campi, dove si coltivavano le famose patate di Carona conosciute sui mercati di tutta la provincia, furono riassorbiti dal bosco, come pure i pascoli lasciati in pasto alle erbacce infestanti. Insomma, in poco tempo Pagliari rimase orfana di tutto e di tutti.
Tuttavia, l’abbandono durò soltanto alcuni anni, perché qualcuno avvertì presto la nostalgia e pensò di ristrutturare la casa dei genitori, almeno per il suo valore affettivo. In questo modo, la piccola contrada di pietra torna pian piano a rivivere, soprattutto in estate, quando qualche nativo passa le vacanze nella vecchia casa dei genitori.
(informazioni reperite dal sito www.brembana.info/borghi).
Due giovani del paese avevano trascorso l’intera giornata a cacciare camosci, nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La battuta di caccia era andata bene: i 2 erano riusciti a catturare un esemplare di camoscio.
Si era fatta notte e decisero di riposare in una baita della zona. Una volta sistemati e dopo aver acceso il fuoco, decisero di gustarsi per cena il fegato della loro ambita preda. Nell’attesa che la carne fosse cotta, i 2 giovani discutevano della giornata di caccia, dell’appostamento sulla cima di una rupe, dell’imponente camoscio maschio e il successivo inseguimento.
“Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa… allora sì che ci divertiremmo!” esclamò uno. “La serata sarebbe proprio perfetta” rincarò l’altro. La tipa era una ragazza del paese che non aveva la fama della santarellina. Come per miracolo, il sogno divenne realtà: sentirono bussare alla porta e si trovarono di fronte proprio la ragazza a cui alludevano. I 2 rimasero stupiti al punto che dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fedech, che’l brüsa! (Girate quel fegato, che brucia)”.
Ma la voce della ragazza aveva qualcosa di sinistro che contrastava con le linee delicate del viso. Il più attento, mentre si avvicinava al fuoco per rigirare il fegato, si accorse che dalla gonna della ragazza spuntavano 2 zoccoli di capra. La tipa, in realtà, era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo e rispondere con tono “Se ‘l brüsa, làghel brüsà! (Se brucia, lascialo bruciare!)”.
Trascinò l’amico fuori dalla baita intimandolo di correre verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e la domanda dei compaesani era sempre la stessa: “Come ela ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra? (Com’è andata quella volta con quella capra?)”.
Da allora, quella baita fu per tutti LA BAITA DELLA CAPRA.
C’era un ricco possidente di Branzi che aveva una giovane figlia, innamorata di un pastorello della Val Taleggio, che a sua volta ricambiava il sentimento. Il ragazzo non aveva un lavoro fisso: ogni anno era costretto a cercare una mansione da svolgere, facendosi affidare dai mandriani della zona i propri capi per portarli a pascolare. Il padre, consapevole di tutto ciò, decise di troncare sul nascere i primi germogli di questo amore e promise sposa la propria figliola ad un proprietario di fucine in Val Fondra.
La ragazza lottò con tutte le sue forze contro questa decisione, ma il genitore rimase fermo nella propria posizione. Mentre il giorno del matrimonio si avvicinava, la ragazza si lasciò andare: passava le proprie giornate chiuse in camera, smise completamente di mangiare e diede i primi segni di squilibrio mentale. Tutto il giorno pensava al suo pastore, che nel frattempo aveva ricevuto le minacce del padre di non avvicinarsi mai più a Branzi.
Il padre, preoccupato per la propria figlia, raggiunse ed interpellò ogni medico della Valle; si consultò addirittura con i dottori di Bergamo, senza trovare soluzione alcuna.
Un giorno, a casa della famiglia si presentò un medico molto giovane e vestito in modo non propriamente professionale, un po’ disordinato. Un po’ scettico ma esausto, l’uomo decise comunque di fare un tentativo e di permettere al giovanotto di visitare la figliola. Incredibilmente, la ragazza cominciò a migliorare giorno dopo giorno, ritornò a mangiare e sembrava essere tornata la giovane di un tempo. Nessuna cura miracolosa: il dottore era il pastorello di cui lei era invaghita che, sfruttando il travestimento, riusciva così a passare interi pomeriggi insieme alla sua amata.
Ma la pressione di essere scoperti era troppa, così insieme decisero di fuggire per coronare il loro amore lontano dalla Valle Brembana. Preparato un fagotto con poche cose, una notte lasciarono Branzi di nascosto. Percorsero il sentiero della Val Borleggia, fino a raggiungere il Pian delle Casere, ma ad un certo punto udirono in lontananza i rintocchi del campanile del paese: la loro fuga era stata scoperta. Disperati, ripresero a camminare, quasi correndo, ma ad un certo punto la ragazza scivolò e batté la testa, rimanendo a terra incosciente.
Il giovane pastore provò a farla tornare in sé, ma il tempo stringeva e già si udivano in lontananza le persone mandate a cercarli. Prese così la ragazza fra le sue braccia e iniziò a correre per il Monte Farno. Complice il buio fitto, si perse nel sentiero e si ritrovò in un luogo scosceso. Un passo incerto gli costò caro: scivolò sulla ghiaia e, stringendo la sua amata in un ultimo abbraccio, caddero insieme in fondo ad un precipizio.
Dove finirono i loro corpi, si aprirono 2 conche circolari da cui cominciò a sgorgare e zampillare l’acqua, dando così vita ai LAGHI GEMELLI. Ora la costruzione della diga ha fuso i 2 specchi d’acqua in un unico bacino, ma si potrebbe pensare che, finalmente, questo abbia permesso ai 2 giovani innamorati di riunirsi per l’eternità.
Eventi annuali
Il Trofeo Parravicini è una gara nazionale di sci alpinismo a squadre che si svolge in primavera in una delle cornici più suggestive delle Orobie: la conca del Calvi. Il percorso prevede la partenza dal Rifugio Fratelli Calvi per poi toccare in successione le vette dei Monti Grabiasca, Reseda, Madonnino e Cabianca, per un totale di circa 18 chilometri e 1900 metri di dislivello.
Come tutte le gare di scialpinismo, anche questa è riservata ad atleti e alpinisti, temprati dal ghiaccio e dal vento gelido delle montagne e non solo dotati di un’ottima tecnica sciistica, ma anche esperti della montagna invernale.
La prima edizione del trofeo ha luogo nel 1936; da quell’anno, con cadenza annuale, è stata interrotta solamente a causa delle cattive condizioni meteo o dei conflitti bellici che non permettevano il corretto svolgimento della competizione. L’evento costituisce ormai un appuntamento di fama nazionale per gli appassionati dello sci alpinismo, che arrivano a Carona da tutta Italia per parteciparvi.
Il terzo sabato del mese di luglio, il Gruppo Alpini di Carona organizza la tradizionale festa di S. Gottardo, patrono del borgo storico di Pagliari.
Alla mattina viene celebrata la S. Messa nella chiesetta dedicata al santo protettore delle frane e delle valanghe. A seguire c’è la possibilità di pranzare, in compagnia di musica e balli.